Cominciamo dal principio

E se provassimo, in tempo di buoni propositi, a puntare in alto e dritto al centro? Se provassimo a ripartire dal Senso della Vita, senza pensare – neanche per un attimo – che sia qualcosa di astratto e inafferrabile?

Da molto prima che fosse stabilito il nostro calendario, questo tempo dell’anno coincide con un momento di avvicendamento fra il buio e la luce: il solstizio è passato, le giornate si riallungano, il ritorno della luce ci porta naturalmente a riaprirci. Istintivamente, esprimiamo questo sentimento vitale formulando progetti, desideri e aspettative. Allo stesso tempo, però, di fronte ai nuovi obiettivi può capitare di scoprirci confusi, scarichi, un po’ svuotati.

A ben guardare, questi due atteggiamenti sono due facce della stessa medaglia: mettono al centro noi stessi, le nostre prestazioni, i nostri doveri sociali, magari percepiti “contro” gli “ostacoli” e le “sfide” che ci sembra che la vita ci ponga. O, addirittura, in competizione con gli altri.

È un inganno. Un inganno, va detto, molto contemporaneo e molto occidentale. Ma non è questo che l’antica Sapienza ci insegna e ci consegna, in ogni cultura e a ogni latitudine. La stessa cultura cristiana, che scandisce il nostro calendario ma di cui spesso sappiamo così poco, ci invita a salutare l’anno vecchio e ad entrare nel nuovo con l’antichissima preghiera del Te Deum: un testo che passa le prime 24 righe senza chiedere niente, né perdono per il passato né aiuto per il futuro, ma semplicemente lodando. È una preghiera di lode e, quindi, di gratitudine: è l’invito ad accettare, accogliere e celebrare la Vita per com’è, per come è stata e per come andrà avanti, anche (ma non solo!) attraverso di noi.

Questo sentimento di lode, di grato stupore, di accoglienza profonda e universale, è probabilmente il senso più autentico di ogni religione: si trova in ogni cultura, con nomi diversi, e – a pensarci bene – si potrebbe riassumere con un gigantesco, totale, accorato “Sia fatta la Tua Volontà” pronunciato verso la Vita.

Accogliere la Vita, naturalmente, porta ad accogliere più intensamente ed autenticamente noi stessi e gli altri, che – a questo punto diventa evidente – non sono che degli “altri noi”, altre anime in cammino, sorelle e fratelli in cui rispecchiarci.

Nella tradizione Maya, c’è un “saluto” che significa precisamente questo: chiamarlo saluto in realtà è riduttivo e dovremmo forse chiamarlo “la legge di In Lak’ech Ala K’in”,  che significa “io sono te e tu sei me”. Un componimento novecentesco, molto caro a chi ama la cultura maya, ha ripreso ed esplicitato il concetto con queste parole:

Tu sei un altro me
Se io ti danneggio
danneggio me stesso
Se io ti Amo e ti rispetto
Amo e rispetto me stesso

Questo riconoscimento della connessione universale che ci unisce non è solo il modo più sicuro per onorare insieme l’altro e noi stessi, ma è anche l’unica via per la pace e il riconoscimento, profondo, definitivo e salvifico, che camminiamo dentro a Qualcosa di più grande, che scorre attraverso di noi, che ci guida e ci sostiene, e che possiamo chiamare Amore.

Commuove notare come lo stesso identico significato sia contenuto nel più celebre “Namasté” originario dell’India e nell’altrettanto conosciuto “Aloha” della cultura hawaiana: ed è meraviglioso anche constatare come questi saluti siano espressi dal medesimo gesto delle mani giunte sul cuore! Prima che tutto fosse, prima delle lingue e delle culture, prima delle esplorazioni e del colonialismo, prima della globalizzazione e del merchandising, prima di tutto, e cioè al Principio, noi lo sapevamo: siamo umani perché parte del creato, siamo individui che contano perché gli altri siamo noi, e quando non sappiamo da dove cominciare dobbiamo “solo” riconnetterci alla Vita portandoci le mani al cuore.

Solo dopo aver capito l’importanza di affidarci potremo fare progetti e prenderci responsabilità. Solo riconoscendo negli altri delle sorelle e dei fratelli in cammino potremo realizzare noi stessi. Solo dopo esserci scoperti piccoli potremo vedere di quali grandezze siamo capaci.

E, a proposito di “saluti” che però dicono molto di più, mi piace infine ricordare anche l’ebraico “Shalom”, spesso tradotto con “pace”: nella sua etimologia è racchiuso un concetto intraducibile di completezza e di speranza. È l’augurio di sentirsi al sicuro e completi, integri e interi, nella relazione con se stessi, con gli altri e con il mondo. È, guarda il caso, praticamente identico al significato dell’arabo “Salam”. Gli altri siamo noi. Se lo riconoscessimo, cesserebbe ogni guerra.