Riuscire bene in qualcosa è un merito o una “fortuna”? E, in entrambi i casi, è qualcosa che si può dire o è più opportuno tacerne con modestia? La risposta, probabilmente, sta in un’altra domanda: esattamente, cosa significa “comportarsi bene”?
Proviamo a prendere la questione dall’inizio. L’anno scolastico sta entrando nel vivo e, tra le altre cose, si fa un gran parlare di voti in condotta e di nuove forme di valutazione introdotte dal Ministero: Ministero che, per inciso, ha scelto di ribattezzare se stesso “dell’Istruzione e del Merito”.
La prima cosa da stabilire, dunque, è cosa si intenda per “merito”. L’enciclopedia Treccani lo definisce come “l’essere degno di lode, di premio, o anche di un castigo. In genere però ha senso positivo, e indica il diritto che con le proprie opere o le proprie qualità si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa (materiale, morale o anche soprannaturale), in relazione e in proporzione al bene compiuto (e sempre sulla base di un principio etico universale che, mentre sostiene la libertà del volere, afferma la doverosità dell’agire morale)”.
Indubbiamente, tutto questo fa parte di un modo di pensare molto diffuso: il merito è generalmente considerato un mix virtuoso di talento e impegno e, apparentemente, sta alla base di ogni buona educazione. Chi di noi non concorderebbe con l’idea che è giusto impegnarsi, che bisogna fare le cose per bene e, anche, che da chi è più dotato è giusto aspettarsi a maggior ragione che dia il massimo? Eppure. Come teen e life coach, non sento che il discorso si possa esaurire in questo modo. Secondo l’approccio che preferisco, quello del coaching umanistico, possiamo andare più in profondità, e aiutare meglio i nostri ragazzi, cambiando un po’ il nostro paradigma: e, in particolare, spostandoci dalla logica della performance a quella della felicità.
Provo a spiegarmi e, per farlo, prendo in prestito l’ottima sintesi di uno dei miei maestri, il padre del coaching umanistico Luca Stanchieri, che è intervenuto di recente anche sulla questione del voto in condotta: «Il paradigma della “buona condotta” è un paradigma punitivo, persecutorio, minacciante – ha scritto Stanchieri – Il problema è che una “buona condotta” così concepita non porta da nessuna parte, se non nel campo di un conflitto distruttivo e reciproco fra alunni, docenti, genitori. In alternativa si potrebbe considerare la “buona condotta” come un comportamento buono, ovvero finalizzato al bene».
Ecco. Chi mi conosce non si sorprenderà di sentirmi dire che in questo approccio c’è, secondo me, la chiave. Se l’obiettivo che poniamo a noi stessi – e che insegniamo ai nostri ragazzi – è quello di raggiungere un determinato livello di performance, il paradigma che coerentemente ne deriva comprenderà una valutazione per stabilire quanto il nostro comportamento sia stato “adeguato” ed “efficace”; comprenderà la necessità di raggiungere quel risultato prima e meglio degli altri, o entro un determinato tempo, e secondo certi parametri, in una logica quindi di competizione e superamento. Nel suo ultimo libro “Chi vince non sa cosa si perde”, il semiologo Stefano Bartezzaghi riflette sul cambiamento avvenuto con le parole “vincente/perdente” e con l’aggettivo “sfidante”. Fino agli anni Ottanta, osserva Bartezzaghi, “vincente” o “perdente” era chi di volta in volta vinceva o perdeva: a poco a poco, però, “vincente” o “perdente” è diventato un marchio, una specie di predestinazione, un modo per definire qualcuno a prescindere dai risultati immediati. Allo stesso tempo, “sfidante” era un sostantivo, usato per indicare chi cercava di battere il campione in carica; oggi “sfidante” è un aggettivo: e tutto è “sfidante”… un obiettivo è sfidante, una situazione è sfidante, la vita è sfidante! Questa mentalità ci costringe a sentirci continuamente… sfidati, sotto attacco, come dei campioni in carica che hanno sempre qualcosa da confermare oppure da perdere. In quest’ottica, se riesco a completare con successo la mia performance “sono stato bravo” o “sono stata brava”. E, ironia della sorte, non posso dirlo, perché “vantarsi non è educazione”. Così però si finisce per vivere in ansia, o si diventa aggressivi, si tende a bruciare le tappe e – quel che è peggio – a furia di concentrarsi sulla presunta meta, si rischia di perdersi il viaggio.
Fortunatamente, non è l’unico modo che abbiamo per vedere le cose. Al contrario, questa mentalità si può ribaltare, senza minimamente mettere in discussione che nella vita sia giusto impegnarsi. Come? Pensando, credendo, sapendo di aver ricevuto dei doni. Delle potenzialità. Tutti: ciascuno di noi. Ma i doni sono semi: mi sono stati affidati e ho la responsabilità di farli fiorire, e non solo per me. Ho una responsabilità verso la Vita, verso gli altri, verso l’ambiente in cui vivo. In questo nuovo paradigma, che abbiamo chiamato “della felicità”, il nuovo obiettivo è l’autorealizzazione. Costruisco una vita piena e, come conseguenza, scopro dentro di me il desiderio di incidere. Di “significare”. Di agire. Il sistema di premi e punizioni, incentivi e disincentivi, impallidisce di fronte a una domanda più grande: sto lavorando per il Bene? Sto assicurando il mio contributo? Mi sto rendendo utile? Ecco che allora riconoscere le proprie doti non è più una vanteria ma al contrario un atto di umiltà, di presa in carico, di assunzione di responsabilità. Ecco che la valutazione non diventa più un giudizio su di me, ma un semplice momento di verifica su quello che ho imparato fin qui. La questione non è più “sono brava” o “sono bravo”, ma “ho ricevuto un dono”: e ora cosa posso farne?
Come adulti, questa è anche una grandissima sfida educativa. Si tratta di trasmettere a chi viene dopo di noi l’idea che il mondo aspetta il suo contributo e che, proprio per questo, deve darsi da fare: per realizzare se stesso, per migliorare il posto in cui vive, per costruire il Bene. Non solo e non tanto per soddisfare l’adulto di riferimento, o per avere un voto alto, o per vincere sugli altri. Questo è, peraltro, esattamente ciò che cerchiamo di fare in Alicubi,la realtà dedicata a teenager e dintorni di cui faccio parte: ogni adolescente è una meravigliosa terra delle possibilità, da coltivare e far fiorire, nella consapevolezza che non ci sono persone dotate e altre no, ma che tutti e ciascuno hanno delle capacità da allenare. Ad Alicubi non si parte dai risultati ma dall’amore per l’apprendimento, che altro non è che amore per la vita, pronta a quell’età a spalancarsi, assetata di esperienze e bisognosa di conoscere le proprie risorse, i propri “doni”.
E allora se ho dei doni, se sono un dono, la molla che mi muove sarà la gratitudine: il desiderio di far bene, di ricambiare, di contribuire. Da qualche parte in un testo ho letto una frase che diceva “fu quando mi seppi dono che dire Grazie fu dire molto”. Nel coaching umanistico, la gratitudine è una potenzialità dell’area della trascendenza, non a caso: perché niente come il saperci (portatori di) doni può spingerci oltre noi stessi. Ben al di là di quello che noi, o chiunque altro, potremmo mai “meritare”.