“Facciamo la pace?”. Da bambini lo dicevamo spesso: poi, crescendo, è un po’ come se avessimo smarrito la consapevolezza che la pace è una cosa che “si fa”. Come l’amore, come la guerra. Spesso ne parliamo in termini astratti, come se riguardasse qualcun altro, qualcos’altro, o una dimensione utopica, in fondo al di fuori della nostra portata.
E invece non è così. La pace è un’attitudine: personale, innanzitutto, e solo di conseguenza sociale e universale. È un modo di stare al mondo. Ma qual è questo modo?
Giorni fa, mi sono imbattuta nel programma della Milanesiana , il festival multidisciplinare giunto alla sua Venticinquesima edizione. Il tema di quest’anno è “La timidezza (e i suoi contrari)”: “Un tema intimo – ha spiegato l’ideatrice e direttrice del festival Elisabetta Sgarbi – se confrontato con il rumore infernale del mondo intorno a noi, se paragonato alle guerre che ci circondano. Ma è un tema intimo solo in apparenza: perché la Timidezza è un modo di guardare il mondo, considerando anche i mondi degli altri”. Una questione sociale, quindi. Caspita, ho sorriso: non potrei essere più d’accordo.
Nelle riflessioni di Nel buio le stelle ce n’è una dedicata alla Timidezza. Il presupposto su cui si basa il libro è che ognuna delle nostre emozioni, anche quelle scomode o poco funzionali, contengano una luce pronta a farsi scoprire, proprio come il buio racchiude – e permette di vedere – le stelle. La timidezza è l’atteggiamento che adottiamo quando abbiamo timore di qualcosa: della novità, della prova e, in ultima analisi, di essere giudicati. Poiché ci inibisce e ci frena, la avvertiamo come un’ombra, un difetto, un cono di buio. Eppure… La timidezza implica la consapevolezza dei propri spazi personali, della complessità dei sentimenti, dei ruoli sociali, delle molte maschere che quotidianamente indossiamo. La persona timida si rende conto di tutte queste cose e sente il bisogno di trattarle con attenzione. Entra perciò nelle situazioni in punta di piedi, senza invadenza, con discrezione. La timidezza porta le persone a relazionarsi in modo mite, delicato, in ascolto. In altre parole, la “stella” contenuta nella timidezza è il rispetto: una luce grande e brillante di cui c’è più che mai bisogno.
All’appuntamento di chiusura della Milanesiana è stato assegnato un titolo emblematico: “La timidezza e la pace”. Nello specifico, si tratta di una conversazione con il filosofo Bernard-Henri Lévy, autore di varie riflessioni sia sul conflitto israelo-palestinese sia su quello ucraino. Ma il punto che mi ha attratto come una calamita è il percorso che si cela nella scelta di questo titolo: l’idea che il rispetto e la delicatezza, un approccio mite e “timido”, che si prende il tempo per ascoltarsi e ascoltare, sia il primo passo verso la pace. Una pace che “si fa”: una pace interiore che è considerazione di se stessi e che diventa, quindi, attenzione per gli altri ed empatia.
Il problema è che essere timidi, a molti di noi, non piace: odiamo quel senso di inadeguatezza, il rossore sulle guance, l’impressione che la risposta giusta ci venga in mente sempre troppo tardi. Ma cos’è il rifiuto di questa parte di noi stessi se non un conflitto interiore? E come possiamo avere uno sguardo di pace, che include e accarezza i mondi degli altri, se non lo facciamo anzitutto con noi stessi? Siamo sempre in guerra dentro noi stessi finché non diciamo sì alla vita, sì a ogni nostra parte, fino a comprendere buio e luce, fino ad abbracciare la nostra umanità per costruire la pace.
Se la pensiamo così, come capacità di accogliere, come consapevolezza di condividere un viaggio, e quindi come volontà di non generare inutile sofferenza, ecco che la “pace nel mondo” non è più un concetto astratto e lontano, ma un insieme di piccole attenzioni, di piccoli gesti, di piccole forme di rispetto che moltiplicate all’infinito diventano una rete autenticamente solidale fra gli esseri umani.
Non è un caso che tutte le religioni parlino moltissimo di pace. “Shalom”, Pace, è il saluto degli ebrei; Pace è uno dei nomi di Allah; “Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”, dice il Vangelo. Ma, ci ricorda il Dalai Lama, “lo sviluppo di un cuore gentile, e di un vero sentimento di vicinanza per tutti gli esseri umani, non implica quella religiosità che abitualmente associamo con le pratiche religiose tradizionali. Non è appannaggio di chi pratica una religione, ma è un dovere di tutti. La compassione è il pilastro della pace”. La compassione: ovvero quell’atteggiamento che parte dal rispetto per diventare partecipazione.
E – se è vero che l’egoismo, l’istinto del possesso e la paura dell’altro sono limiti con cui la nostra umanità fa i conti molto presto – è anche vero che il desiderio di pace è un’aspirazione profonda ed essenziale. In un certo senso, possiamo dire che la pace coincide di fatto con una vita piena e felice: in cui sappiamo ascoltare i nostri desideri, coltivare ed esprimere i nostri talenti e poi agire con la sensibilità di chi riconosce nell’altro un proprio simile in cammino. Se allarghiamo lo sguardo, non potremo che vedere che ogni guerra è fratricida, che ogni attacco è un passo indietro, che nessuno scontro vale mai, per definizione, il male che provoca. Essere “timidi” di fronte al conflitto è un gesto di grande coraggio e, forse, è un dovere. Perché un cuore gentile è l’obiettivo di ogni umano. E siamo tutti, tutti, in missione per la felicità.