“Tutti circondati di mostri e di dèi, non si conosce la calma” diceva Marcel Proust descrivendo gli adolescenti. Mentre, più prosaicamente, una persona su Twitter mi ha fatto ridere tempo fa scrivendo che “un buon modo per prepararsi all’adolescenza dei figli è esercitarsi a parlare coi sassi”. Il nostro rapporto con la primissima giovinezza è così: da una parte pensiamo con un certo romanticismo alla nostra, soprattutto se è passata da un po’, dall’altra guardiamo con fatica e sospetto all’adolescenza dei nostri figli. Che spesso, è innegabile, a quell’età diventano incomprensibili: polemici, ribelli, contraddittori. Faticosi, appunto.
Eppure.
Come coach, lasciatemelo dire subito, considero l’adolescenza un’età meravigliosa. Negli ultimi anni, grazie a vari progetti nelle scuole, ho avuto il privilegio di incontrare e allenare centinaia di preadolescenti e di adolescenti, a volte soli, a volte con i loro genitori. E non posso che constatare ogni volta, con stupore e gratitudine, che siamo davanti a fiori che sbocciano. Dovremmo davvero guardarli come a febbraio le gemme o le giornate che si allungano: con gioia e sorpresa, con speranza e senso di responsabilità. Sì, perché, proprio mentre i ragazzi sembrano comunicarci con forza che non ci vogliono tra i piedi, ecco che il nostro ruolo diventa quasi più fondamentale di quando erano bambini: perché mai come a quell’età i ragazzi hanno bisogno di imparare a guardare a se stessi con fiducia e amore, aiutati da adulti che credano in loro. È l’età delle grandi insicurezze, ma anche degli slanci, dei sogni, dei desideri: è, in altre parole, l’età del potenziale per eccellenza! I teenager sono come cellule staminali indifferenziate: possono ancora diventare qualsiasi cosa. Possiamo in ogni età della vita , in un certo senso, ma loro di più.
Ecco perché, come coach, sono sempre più interessata a raccogliere la sfida dell’educazione. Al mio impegno nelle scuole, si aggiunge ora la mia partecipazione a un progetto che ho trovato davvero affascinante. Il punto di partenza è che tutti i ragazzi abbiano del potenziale: si tratta solo di scoprire quale. Anche, a volte soprattutto, gli adolescenti più inquieti, quelli che vanno male a scuola, quelli che fanno impazzire i genitori, hanno doni abbondanti, nascosti “da qualche parte”. Per questo, il progetto a cui ho deciso di aderire si chiama “Alicubi”, che in latino significa appunto “da qualche parte”: l’ha ideato l’educatore, docente, esperto di tecnologia e di gaming, nonché fondatore di due startup innovative Mauro Mastronicola, con cui ho trovato subito molti punti in comune. Alicubi è un’associazione culturale, che si offre come spazio compiti (dove i ragazzi possono andare a studiare e fare ricerche, supportati da insegnanti e volontari) e si propone come spazio di aggregazione (dove trovarsi con i coetanei, pranzare dopo la scuola, ascoltare musica, giocare e fare arte). Ma decisamente Alicubi è più di questo: è un modo di intendere la crescita. È uno stimolatore di creatività. È un incubatore di cittadinanza attiva. È, prima di tutto, uno sguardo pieno d’amore su quest’età preziosa.
Un’età che ha sempre presentato le sue complessità ma che – inutile negarlo – oggi presenta sfide inedite. C’è stato un tempo, neanche così lontano, in cui la nostra società sembrava avere regole certe e condivise: la scuola aveva sostanzialmente il compito di trasmetterle ai ragazzi perché si adeguassero. Si parlava, non a caso, di “pedagogia dell’adattamento”. Oggi questa visione ci appare anacronistica, perché il contesto in cui viviamo è dinamico e instabile, destrutturato, molteplice: per farne parte, non ci serve più conoscere una sola regola universale, ma piuttosto saper leggere la pluralità. Oggi si parla molto di “pedagogia dell’inclusione”.
Dal punto di vista del coaching, però, si può e si deve compiere un ulteriore passaggio evolutivo: potremmo parlare di “pedagogia dell’autorealizzazione”, che valorizza l’originalità di ciascuno e, contemporaneamente, incoraggia l’incontro con l’altro. Alla centralità della scuola, della lezione, del voto, del giudizio e della prestazione si sostituisce la centralità della persona e della relazione: così si diventa (anche) bravi a scuola, ma partendo dalle proprie passioni, dai propri interessi, dai propri punti di forza. Il nostro approccio adulto, spesso, è di andare a “correggere i difetti”, “rafforzare i punti deboli”, “colmare le lacune”, “dare ripetizioni”: insomma evidenziare e – nel migliore dei casi – supportare i ragazzi nelle loro aree di debolezza, considerando le relazioni e le passioni come distrazioni o addirittura perdite di tempo.
Eppure non è così.
Ciò che accende l’interesse di un ragazzo o di una ragazza, anche e soprattutto fuori dalla scuola, è spesso il segno di un potenziale, di un talento, di una vocazione. Amare la musica, esprimersi col disegno, analizzare le parole di un rapper, saper faticare nello sport, ma anche essere quello che sa portare distensione nel gruppo o fare da paciere tra due amici, non sono affatto caratteristiche ininfluenti. Nel mondo del lavoro si chiamano “soft skills”: l’adolescenza ne è il regno, ed è lì che spesso dobbiamo guardare.
Per questo mi sono lanciata con grande passione nel progetto Alicubi, favorendo la formazione dell’associazione culturale che porta lo stesso nome e diventandone vicepresidente per impegnarmi in prima persona. Spero di avervi fatto venire voglia di saperne di più o di venire a conoscerci dal vivo. Per mandarci i vostri figli, per partecipare come volontari. O, naturalmente, nel caso foste adolescenti, per venire ad aggiungere il vostro colore al nostro crescente arcobaleno.