Dall’ebraico Purim ai Saturnali latini, quello che noi chiamiamo “Carnevale” è una festa antichissima e trasversale a numerose culture: come mai? Beh, probabilmente perché da sempre abbiamo bisogno di “impazzire” una volta ogni tanto.
“Semel in anno licet insanire”, dicevano i Romani: “una volta all’anno è lecito andar fuori di sé”. Era per l’appunto il motto del Carnevale: un periodo di pochi giorni che indicava il temporaneo sovvertimento degli obblighi comuni, delle gerarchie predefinite e dei ruoli sociali. Un momento di follia, di libertà e di rinnovamento, in cui “le regole non esistono, esistono solo le eccezioni”, per dirla alla Jovanotti.
L’idea della sospensione delle norme e del rovesciamento del consueto è assolutamente centrale in questa festa, ed è anche la ragione per cui è interessante fermarsi un momento a pensarci.
Nella nostra società, il Carnevale è per lo più visto come una “cosa da bambini”, un momento di pura allegria e spensieratezza. La sua origine, però, è più complessa e densa di significato. I rituali dionisiaci dell’antica Grecia, o quelli legati a Saturno nella cultura latina, sono dei veri e propri antenati del Carnevale: indubbiamente caratterizzati da molta allegria e da una certa sfrenatezza, erano però dei serissimi momenti catartici, occasioni impareggiabili di libera espressione di sé e, insieme, valvole di sfogo che aiutavano la tenuta sociale. La dimensione della trasgressione è essenziale: durante i Saturnali, gli schiavi godevano di un giorno di completa libertà, pranzavano con i loro padroni e ne venivano perfino serviti. L’ordine, tanto caro alla cultura greco-latina, lasciava il posto al Caos (quello che – come ci ha spiegato Nietsche molti anni dopo – genera stelle danzanti). Fin dalle sue più remote origini, dunque, questa festa porta con sé l’idea del “mondo alla rovescia”, inteso anche come “mondo di sotto”, il mondo degli inferi che per un giorno viene in superficie.
Non a caso, la simbologia carnevalesca è stata oggetto di numerosi studi da parte della psicologia e della psichiatria: perché è la straordinaria allegoria di un’elaborazione collettiva delle ombre, dell’inconscio, della parte nascosta di noi. Una volta all’anno, è lecito impazzire.
Nella Bibbia, la festa di Purim affonda le radici nel libro di Ester, la giovane e audace ebrea divenuta regina di Persia, la quale, scoperto un complotto ai danni degli Ebrei, fece impiccare il cospiratore e indisse un grande banchetto. Da questo “rovesciamento” della sorte nasce perciò un festeggiamento sontuoso. Non ci si mostra, però, a volto scoperto, ma con una maschera: a ricordare il perfido Haman che ha tentato di agire nell’ombra, sì, ma soprattutto per ricordare che Dio, il Bene, operando nell’ombra della Storia, è sempre in grado di sventare i piani dei malfattori. Anche qui, ritroviamo il concetto del mascherarsi per svelare.
E, in effetti, cosa sveliamo di noi quando ci mascheriamo? In base a cosa scegliamo i nostri travestimenti? Tra i bambini vanno forte Harry Potter e i supereroi, e non è difficile capire il fascino dei superpoteri o del tocco magico. Ma, da grandi, che maschere scegliamo o sceglieremmo? E quali maschere, soprattutto, sceglieremmo per un giorno di togliere?
È sempre interessante ricordare che, in latino, la “maschera” era detta “persona”: già, proprio così, con un’etimologia che ci inchioda per sempre alla consapevolezza di essere “persone” che, ogni giorno, nella vita, interpretano un ruolo. O più ruoli. O moltissimi ruoli. La domanda quindi è: abbiamo scritto noi il copione? Quali sono le maschere che abbiamo voglia, o bisogno, di toglierci ogni tanto? La mamma sempre disponibile? La professionista impeccabile? La persona seria?
A cos’altro avremmo bisogno di dar voce? In cosa avremmo bisogno di lasciarci andare?
Come ben sanno gli educatori, non solo quelli di stampo steineriano, i travestimenti sono un gioco prezioso per i bambini: perché mascherarsi e vivere situazioni immaginarie è una risorsa ricchissima, un modo per rielaborare le emozioni, rivivere situazioni e “mettere in scena” finali diversi. Ma, piccoli o grandi, tutti abbiamo dentro l’intera gamma delle emozioni: il “gioco dei travestimenti” è senza dubbio un luogo sicuro per farle emergere, sperimentarle, non reprimerle. E, come ci insegna Jung, “in ogni circostanza è sempre un vantaggio poter disporre pienamente della propria personalità. In caso contrario, i contenuti rimossi non fanno che riemergere altrove ostacolando il cammino”.
Anche nella cultura dei Nativi americani, la faccia dipinta esprime quello che si ha dentro: “Non sono il naso, non sono gli occhi le parti che gli altri vedono. Le mie sensazioni e la mia Medicina sono rappresentate con disegni, i colori del Grande Mistero che mi ha creato a sua immagine”. Dipingersi il volto, dunque, è un celare per svelare: sembra confondere i connotati, ma dà voce alla parte più intima e autentica del nostro essere, alla parte di noi che è in contatto col mistero, alla parte che rischia di rimanere imprigionata e schiacciata dai ruoli quotidiani.
Erasmo da Rotterdam, nel celeberrimo “Elogio della follia”, afferma che “due cose ostacolano la conoscenza: la vergogna e la paura. La follia libera da entrambe”. E questo è esattamente il significato del “Matto” dei tarocchi, uno degli arcani più interessanti del mazzo: indica l’entusiasmo per il viaggio, l’estro, l’anticonformismo, il giusto livello di incoscienza che porta a mettersi in gioco per poter crescere. Parliamo della capacità di inseguire i propri sogni senza paura e senza vergogna, superando il timore di “risultare ridicoli”. Come si fa a Carnevale. Come diceva Charlotte Bronte, l’autrice di Jane Eyre, “ogni volta che posso, preferisco essere felice che dignitosa”.